Intelligenza emotiva e casualità

Intelligenza emotiva e casualità
Manuale di scienza pratica dell'imprevedibile

martedì 29 novembre 2011

La difficile arte di ingannare se stessi



Esistono tante forme di autoinganno, le quali accadono quando le persone distorcono la realtà che vedono intorno a loro per effetto di desideri, speranze o semplicemente per l’incapacità di reagire adeguatamente agli eventi imprevisti dell’esistenza.
La storia umana fornisce molteplici esempi di questa difficoltà di andare oltre il proprio modo di vedere il mondo: ad esempio, Luigi XVI annotò nella pagina del suo diario alla data del 14 luglio 1789 che “non era successo assolutamente nulla d’importante”, mentre in quello stesso giorno era scoppiata la rivoluzione francese che lo avrebbe portato, nel giro di breve tempo, a perdere prima la corona e poi la testa mediante la ghigliottina.
Al pari del re di Francia, siamo tutti soggetti all’autoinganno al fine di proteggere la nostra autostima e di conservare così la fiducia che le cose andranno sempre come le desideriamo, salvo poi accorgerci che gli eventi raramente si verificano come avevamo previsto inizialmente.
Nel 1964, Milton Rokeach ha condotto una delle ricerche più famose sulla tendenza umana all’autoinganno, mettendo a confronto tre pazienti psichiatrici molto particolari: ognuno di essi era convinto di essere la reincarnazione di Gesù Cristo in persona. Era chiaro fin da subito che nessuno fra i medici e gli psichiatri che avevano in cura questi pazienti sarebbe riuscito, da solo, a convincerli che stavano ingannando se stessi e gli altri: infatti, tentare di persuadere una qualsiasi persona, sofferente o meno di problemi psichiatrici, in genere determina l’effetto opposto, cioè di convincerla ancor di più circa la bontà della sua idea. Perciò, Rokeach pensò di riunirli tutti e tre in una stessa stanza per più volte nel corso di vari mesi, in modo che la loro convinzione di essere il Messia fosse messa a dura prova da un’evidenza esterna altrettanto grande: qualcun altro che sosteneva la stessa e identica cosa. Posti l’uno di fronte all’altro, Rokeach era dell’opinione che alla fine avrebbero messo in discussione le loro idee. Paradossalmente, però, l’unico a rinunciare ai suoi propositi, alla fine, fu proprio Rokeach, il quale ben presto capì di essere lui stesso vittima di un’auto-illusione: credere che bastassero il dialogo e il confronto con l’evidenza contraria, per riuscire a convincere una persona che aveva torto su di una qualsiasi questione.
Dopo ben due anni di durata, questo esperimento sociologico finì per arenarsi tra dispute teologiche infinite, tanto che le discussioni sfociarono molto spesso in vere e proprie risse verbali e fisiche. Nelle intenzioni di Rokeach, il porre i tre pazienti di fronte all'evidente contraddizione per cui più persone sostengono di essere Gesù Cristo, avrebbe fatto in modo che il nonsenso delle loro affermazioni risaltasse con maggiore forza. Tale convinzione, poi rivelatasi un autoinganno, era stata ispirata a Rokeach da un racconto di Voltaire, il quale riferiva il caso di un uomo che, convinto di essere Gesù Cristo, mise in discussione la sua idea dopo essere stato rinchiuso in un manicomio in compagnia di un’altra persona che asseriva di essere Dio.
Le argomentazioni utilizzate dai tre pazienti per spiegare la falsità delle affermazioni altrui, avevano per altro una loro logica e coerenza: per esempio, uno dei tre uomini affermò che se gli altri due fossero stati veramente la reincarnazione di Gesù, allora non sarebbero stati ricoverati in manicomio…
Alla fine dell’esperimento accadde qualcosa d'imprevedibile all’inizio: i tre pazienti smisero semplicemente di discutere e di litigare, per cominciare a parlare di altri argomenti. Rokeach capì allora di aver sbagliato e di essere stato vittima di un autoinganno, quindi decise di lasciare liberi i tre pazienti. La morale di questa storia potrebbe essere la seguente: se è difficile far cambiare idea alle persone, deve comunque passare del tempo (almeno due anni) per far cambiare opinione ai ricercatori che studiano il fenomeno di come si fa a cambiare idea!

mercoledì 9 novembre 2011

Le tre storie raccontate da Steve Jobs






Il 5 ottobre 2011, Steve Jobs muore a Palo Alto dopo una lunga malattia. Fondatore della Apple, Jobs ha contribuito in maniera determinante a sviluppare e a diffondere l’industria dei computer: proprio a lui si deve l’idea di costruire un computer che fosse utilizzabile da tutti e non solo dai pochi addetti ai lavori, oltre al miglioramento dell’interfaccia grafica e con essa di molte altre funzioni e strumenti (in primo luogo, l’utilizzo del mouse al posto dei comandi impartiti con la tastiera) che ne hanno reso più semplice e intuitivo il funzionamento.

La sua vita è un perfetto esempio di come, pur partendo da condizioni sociali svantaggiate (fu dato in adozione subito dopo la nascita), grazie al coraggio e all’intuito dimostrati di fronte al verificarsi di eventi negativi e imprevisti (Jobs fu addirittura licenziato dalla stessa Apple, la ditta che aveva fondato), si possano sviluppare pienamente le proprie capacità e potenzialità personali.

A questo link
http://www.youtube.com/watch?v=oObxNDYyZPs, potete trovare la versione integrale, sottotitolata in italiano, del famoso discorso che Steve Jobs ha tenuto nel 2005 all’università di Stanford, durante il discorso augurale per i neolaureati. Steve Jobs racconta tre storie che riguardano la sua vita: la prima storia si riferisce all’avere fiducia in se stessi per riuscire ad unire i puntini che collegano le varie parti dell’esistenza di ognuno. Quando decise di lasciare l’Università, per non pesare troppo sul bilancio della sua famiglia adottiva, continuò a credere che le cose per lui sarebbero andate ugualmente bene. Tutto quel che è riuscito a trovare dopo, infatti, guidato dal suo intuito e dalla curiosità, ha ampiamente ripagato Jobs dei sacrifici fatti in quel periodo della sua vita. Ad esempio, l’esperienza acquisita con i corsi di calligrafia e tipografia fu molto utile per migliorare le funzioni grafiche del primo Macintosh.

La seconda storia è a proposito dell’amore e della perdita. Jobs afferma di ritenersi fortunato, perché in vita sua è riuscito a fare ciò che più amava grazie al lavoro svolto per tanti anni alla Apple. Dopo alcuni anni di collaborazione fruttuosa, accadde un evento assolutamente imprevedibile: essere licenziato dall’azienda che aveva fondato (!) e che aveva contribuito a fare grande. All’epoca, la sua visione del futuro era divergente da quella più ristretta dei suoi soci, che così si allearono fra loro per metterlo in minoranza all’interno del consiglio di amministrazione della Apple: quello che era stato lo scopo principale della sua vita fino a quel momento, andò improvvisamente in frantumi. Nonostante la cocente delusione che aveva subito, Jobs si accorse di amare ancora quello che aveva fatto fino a quel momento della sua vita e decise così di ricominciare da capo. “Non me ne accorsi inizialmente, ma il fatto di essere licenziato dalla Apple fu la miglior cosa che potesse succedermi”. La consapevolezza di poter ricominciare da zero come un debuttante, infatti, portò Jobs ad affrontare con rinnovato entusiasmo le sfide del mercato informatico globale, liberandolo dalle inerzie patite con la vecchia azienda e aprendogli nuove opportunità con le quali sfruttare le sue migliori risorse intellettuali. Dopo un iniziale e comprensibile periodo di scoramento, l’essersi liberato da ogni vincolo consentì a Steve Jobs di entrare nella fase più creativa della sua vita. Probabilmente, niente di tutto ciò che riuscì a realizzare in seguito (come l’aver fondato due nuove aziende per l’animazione digitale, la Next e la Pixar, oppure il matrimonio con sua moglie, o ancora il ritorno alla guida della Apple) si sarebbe mai verificato se non fosse stato licenziato dalla sua prima azienda, perciò Jobs ritiene che il licenziamento che ha segnato la sua esistenza prima in negativo e poi in positivo, sia stato la medicina amara che lo ha aiutato a migliorare la sua vita e a realizzarsi ancora di più.

La terza storia raccontata da Jobs si riferisce alla morte. Quando aveva solo 17 anni, Jobs lesse una citazione da un libro che lo colpì moltissimo: “Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, sicuramente una volta avrai ragione”. Da allora, Jobs ha preso l’abitudine di guardarsi ogni mattina allo specchio chiedendosi: “Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". Ogni volta che la risposta è negativa, Jobs capisce che deve cambiare qualcosa nella sua vita per poterla migliorare. La consapevolezza che non siamo eterni ma che tutto prima o poi finisce, diventa in tal modo uno stimolo per cercare di uscire dai momenti d’inerzia che colpiscono tutti durante la propria esistenza e fare qualcosa d’importante per se stessi e gli altri.