Intelligenza emotiva e casualità

Intelligenza emotiva e casualità
Manuale di scienza pratica dell'imprevedibile

martedì 9 ottobre 2012

La paura di cambiare





I nemici del cambiamento sono principalmente due: da una parte abbiamo la presunzione di sapere tutto, la quale impedisce d’imparare qualcosa di nuovo, dall’altra, ci sono le vecchie abitudini consolidate nel corso degli anni, le quali spesso non sono altro che un modo più o meno consapevole per perdere tempo. Se perdiamo del denaro, c’è sempre la possibilità di recuperare le perdite, mentre il tempo che buttiamo, nessuno lo restituirà più indietro: perciò, si può affermare come il tempo sia sicuramente la risorsa più importante che abbiamo a disposizione, oltre che quella che andrebbe impiegata e spesa meglio. 

A ogni cambiamento corrisponde sempre una perdita: infatti, chi sceglie di cambiare si lascia alle spalle i punti di riferimento cui è affezionato, per approdare in territori nuovi e almeno in parte sconosciuti. Tutte le volte che rifiutiamo o rimandiamo la possibilità di cambiare qualche aspetto di noi stessi e del mondo che ci circonda, ci comportiamo come dei pesci che preferiscono continuare a nuotare in un acquario ristretto e angusto, invece di prendere la direzione del mare aperto, nel quale sono sicuramente presenti maggiori pericoli e incognite, ma anche una maggiore libertà d’azione. 

Che cosa tiene le persone così legate al proprio passato? Probabilmente la paura di affrontare qualcosa che appare nuovo è un grosso freno allo sviluppo personale, così come la mancanza di autostima e di fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. Si preferisce rimanere così come si è, ancorandosi alle proprie sicurezze fino allora conquistate, per evitare di affrontare nuove sfide e di acquisire un nuovo modo di pensare. Si rimane, così, vincolati ai vecchi schemi, nella convinzione erronea che essendo stati validi in passato, lo saranno ancora anche in futuro. 

In realtà, soltanto chi riesce ad allargare i propri orizzonti di vita, acquisendo nuovi punti di vista sulle cose, riesce ad adattarsi meglio a un mondo in continuo divenire, modellando almeno in parte le situazioni in base alle proprie esigenze. Invece, chi tende a evitare il cambiamento, rimandandolo cronicamente, in genere finisce per subirlo quando meno se lo aspetta, sotto forma di quello che, di solito, viene chiamato sfortuna o destino avverso, ma che altro non è che la paura del nuovo e di ciò che ancora non si conosce o non si comprende appieno. 

Tutti coloro che iniziano un nuovo percorso di vita sono animati e spinti dalla voglia di conoscere cose nuove, mentre coloro che si lasciano vivere finiscono per rimanere in attesa di qualcosa che poi non accade mai. 

Lasciare la vecchia strada per quella nuova conviene sempre, perché aiuta a sviluppare la creatività e a trovare il coraggio di rimettersi in gioco, accettando di vivere in un mondo la cui un’unica regola davvero immutabile sembra essere quella scoperta da Eraclito più di duemila anni fa: “tutto scorre”.


giovedì 13 settembre 2012

Le anomalie scientifiche





La scienza moderna non sempre riesce a spiegare tutto: a volte capita che i ricercatori si trovino di fronte a cose o eventi che non solo non sono in grado di spiegare ma che non dovrebbero nemmeno esistere, sulla base dei modelli teorici sviluppati fino a oggi.

Thomas Kuhn, uno dei principali filosofi della scienza del novecento, definiva questi eventi con il termine di “anomalie scientifiche”: se la scienza non era in grado di spiegare qualcosa in maniera esaustiva, ecco che probabilmente si doveva operare un cambio di paradigma concettuale. Un elenco, sicuramente parziale, di queste anomalie comprende la materia oscura (che rappresenterebbe la maggior parte dell’Universo attualmente esistente), il fatto che, a certe condizioni, alcune costanti scientifiche sembrano misteriosamente cambiare, il come ha avuto origine la storia della vita sul pianeta terra, se esistono altre forme di vita nel cosmo, l’effetto placebo, la fusione fredda. 

Spesso accade che si preferisca ignorare certi fenomeni piuttosto che rimettere in discussione modelli teorici ormai accettati e riconosciuti come validi, perciò molti di questi misteri rischiano di rimanere parzialmente o totalmente insoluti. Per una trattazione esauriente di questi argomenti, si consiglia la lettura di un recente libro scritto dal giornalista Michael Brooks e intitolato “Le 13 cose che non hanno senso”, il quale descrive nel dettaglio le principali anomalie scientifiche che la scienza moderna non riesce ancora a spiegare. Secondo Brooks, il fatto di compiere nuovi esperimenti o ricerche, non necessariamente porterà a scoprire la verità su queste anomalie se prima non sarà cambiato il paradigma di base per mezzo del quale si cerca di conoscerle. 

Un esempio storico di cambio di paradigma è la rivoluzione copernicana: prima di Copernico, infatti, si riteneva che la terra si trovasse al centro dell’universo e che fosse il sole a girare intorno a essa insieme a tutte le altre stelle e i pianeti. Nonostante si fossero accumulate nel tempo prove a favore del contrario, gli studiosi dell’epoca preferirono ignorarle piuttosto che mettere in discussione il paradigma scientifico principale, quello tolemaico, in base al quale era la terra al centro di tutto il cosmo conosciuto. Fu Copernico a introdurre il nuovo paradigma, ma occorse ben più di un secolo prima che la comunità scientifica, troppo legata alle idee tradizionali, lo accettasse completamente. La storia riporta molti altri esempi di rivoluzioni concettuali avvenute in ambito scientifico, come la teoria dell’evoluzione di Darwin oppure la teoria della relatività, che sono state gradualmente accettate dalla maggior parte degli altri studiosi, dopo aspre resistenze e polemiche iniziali.

Anche le persone comuni, molto spesso, si comportano come degli studiosi arroccati sulla torre d’avorio delle loro convinzioni errate, preferendo ignorare i dati che l’esperienza continuamente fornisce loro piuttosto che rivedere alcuni modi personali di pensare e di vedere il mondo. In tal senso, si può affermare che gli individui si rivelano molto più bravi a trovare prove a favore delle loro idee piuttosto che metterle in discussione al fine di elaborarne altre più evolute e più adatte a comprendere una realtà in continuo cambiamento.

martedì 31 luglio 2012

Darwin e i cambiamenti evolutivi




Charles Darwin, il naturalista inglese diventato famoso con la teoria dell’evoluzione, sosteneva che non sempre la specie più forte sia anche quella che, poi, riesce a sopravvivere in un determinato ambiente, e a volte nemmeno la più intelligente, poiché l’unica garanzia di sopravvivenza è costituita dalla predisposizione al cambiamento.

Nonostante le critiche ricevute per lo più da ambienti religiosi, svariate ricerche hanno dimostrato la plausibilità del modello darwiniano, che concepisce l’evoluzione come una somma di eventi casuali, i quali sono selezionati in base alle necessità naturali. La teoria di Darwin respinge qualsiasi implicazione di origine finalistica, in favore di una casualità evolutiva che premia non soltanto la specie più forte o più intelligente, ma soprattutto quella che dimostra di adattarsi meglio agli improvvisi cambiamenti ambientali.

Darwin presenta la dura lotta per la sopravvivenza come un evento naturale e quindi inevitabile, grazie alla quale soltanto gli individui più adatti alle condizioni ambientali riescono a vivere e a riprodursi. La lotta per l’esistenza riguarda sia gli individui di specie differenti che vivono nel medesimo ambiente, sia gli individui di una stessa specie che si trovano a competere tra di loro.

Una variante popolare di questa concezione, è rappresentata da una metafora africana, resa celebre da uno dei primi film dei comici Aldo, Giovanni e Giacomo: ogni mattina, come sorge il sole, la gazzella si sveglia e sa che dovrà correre per salvarsi dal leone. Anche il leone si sveglia ogni mattina e sa che dovrà correre più veloce della gazzella se vorrà catturarla. Perciò in Africa non importa che uno sia un leone piuttosto che una gazzella, l’importante è cominciare la giornata correndo.

Le varie strategie messe in atto dagli animali per vincere la lotta per la sopravvivenza sono molto fantasiose. Esiste però un’interessante appendice che molti aggiungono a questo antico proverbio: ogni volta che il leone riesce a catturare la gazzella, alla fine soltanto lo sciacallo è sicuro di guadagnarci davvero qualcosa …

La morale finale potrebbe, allora, essere la seguente: cercare di correre più veloce dei propri avversari, siano essi gazzelle oppure leoni, va bene, ma alla fine occorre prestare molta attenzione anche agli imprevedibili sciacalli, che cercano di pasteggiare a nostre spese e con i nostri successi!

martedì 15 maggio 2012

Risolta la legge di Murphy?



La legge di Murphy consiste in un insieme di luoghi comuni e detti popolari che possono essere riassunti nei due celebri assiomi: “Se qualcosa può andare storto, sicuramente lo sarà” e “se ci sono due o più modi di fare una cosa, uno dei quali può avere un esito catastrofico, è altamente probabile che qualcuno la farà proprio in questo modo”.
L’intento di Arthur Bloch, l’autore che ha classificato le leggi di Murphy, era di dimostrare come fosse possibile costruire negativamente il modo di percepire gli eventi, distorcendo la visione della vita e del futuro con un filtro di pessimismo.
In tal senso, la legge di Murphy si riferisce non tanto al modo di generalizzare situazioni sfavorevoli che possono capitare a tutti, piuttosto si tratta di un utile stratagemma per ironizzare su quelle persone che si soffermano unicamente sul lato negativo delle cose, evitando di vedere gli eventuali aspetti positivi o neutri.

Si tratta, in definitiva, di una variante ironica del fenomeno conosciuto in psicologia con il nome di profezia che si auto-avvera, cioè di un’opinione originariamente falsa che per il solo fatto di essere creduta come vera, porta l’individuo a comportarsi in modo da far avverare le previsioni negative. Infatti, l’abitudine a considerare la realtà nei suoi aspetti peggiori, così come il soffermarsi unicamente sui lati negativi di qualsiasi questione, oltre a distogliere l’attenzione dalla ricerca delle soluzioni, finisce per rendere le persone prigioniere di schemi mentali negativi e senza vie d’uscita rispetto alla situazione di partenza, qualunque essa sia.

Steve de Shazer, uno psicologo americano che purtroppo è ancora poco conosciuto in Italia, era solito esprimere questo concetto servendosi di una metafora molto suggestiva, quella del masso lungo la strada. Immaginate di stare pedalando con una bicicletta lungo una strada e che all’improvviso intravediate davanti a voi un ostacolo, sia esso una pietra oppure una buca: quanto è grande la probabilità di colpirla? In base alla legge di Murphy, sarebbe pressoché inevitabile andare a sbatterci contro nonostante tutti gli sforzi che si possono fare per frenare la corsa in tempo, mentre secondo de Shazer sarebbe certamente più vantaggioso guardare la strada libera accanto e oltre questo ostacolo, al fine di concentrare l’attenzione sullo spazio disponibile di lato e da dove è possibile superare agilmente l’ostacolo.
Pur riconoscendo che c’è sempre qualcosa che attira l’individuo verso il pericolo, de Shazer consiglia di guardare alla parte di strada che è rimasta libera dagli ostacoli e di concentrarsi su di essa e basta, poiché è proprio là che si cela la soluzione migliore del problema.

Fermarsi all’improvviso per ragionare su come si è formata la buca oppure su in che modo sarebbe possibile rimuovere l’ostacolo imprevisto, non soltanto è una cosa contro-intuitiva, ma distoglie l’attenzione dalla ricerca delle possibili soluzioni da dare al problema. Perciò, conclude de Shazer, conviene sempre cercare di individuare una strada percorribile e libera dal problema, altrimenti si finisce per vedere ostacoli anche laddove non ci sarebbero.

Chi vede il bicchiere mezzo vuoto, invece, tende a focalizzare il suo interesse sulle difficoltà incontrate durante la giornata e su quelle che lo aspettano, mentre chi riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno, è solito affrontare i problemi con uno spirito più combattivo e senza lasciarsi sopraffare dalle avversità. A tale proposito, Albert Einstein una volta disse: “E’ meglio essere ottimisti e avere torto piuttosto che essere pessimisti e avere ragione …”.

giovedì 1 marzo 2012

Comunicare le emozioni con i gesti




Studi scientifici hanno stabilito che la maggior parte della comunicazione si svolge attraverso il canale non verbale: se le parole si riferiscono a che cosa si intende dire, il linguaggio del corpo serve per esprimere il modo in cui dirlo. Per comunicazione non verbale si intende quindi l’espressione del volto, la postura, il tono della voce, lo sguardo, i movimenti del corpo e i gesti effettuati con le mani.

L’antropologo inglese Desmond Morris, autore dell’originale libro “La scimmia nuda” in cui analizza l’uomo in quanto appartenente all’ordine dei primati, sostiene che gli individui hanno in comune con le scimmie antropomorfe la maggior parte degli schemi di comportamento, come i rituali di corteggiamento, il modo di esprimere la rabbia e la paura, le strategie di cooperazione sociale oppure di competizione con gli altri. In tal senso, i gesti effettuati con le mani diventano un modo per entrare in contatto con il mondo, trasmettono le nostre intenzioni e veicolano messaggi molto significativi dal punto di vista evolutivo. Talvolta queste intenzioni sono in contrasto con quanto detto a parole, perciò anche attraverso l’osservazione dei gesti delle mani e non soltanto dell’espressione del volto, si possono intuire eventuali bugie e reticenze da parte dell’altro.

Secondo un altro luogo comune molto diffuso, il gesticolare sarebbe un tratto caratteristico di persone poco istruite o di estrazione sociale povera: da ricerche condotte di recente presso l’Università di Chicago, sembra invece che lo sviluppo cognitivo sia positivamente influenzato dal saper gesticolare in modo appropriato i propri stati d’animo e i pensieri astratti.

La gestualità, perciò, contribuisce ad aumentare la capacità di memorizzazione, oltre ad influire sul modo in cui gli altri ricorderanno ciò che volevamo comunicare con il linguaggio parlato, per non dire poi dell’importanza che la gestualità ha nel persuadere le persone circa quelle che sono le nostre convinzioni più profonde. Ne sanno qualcosa anche i politici di successo di ogni latitudine, i quali ben sanno come il corretto uso dei gesti durante le loro orazioni e comizi sia fondamentale per veicolare i messaggi giusti ai potenziali elettori. Fin dai tempi del celebre duello televisivo Nixon – Kennedy, quando il candidato democratico surclassò il rivale repubblicano grazie alla maggiore espressività del volto e dei gesti delle mani (che all’elettore medio americano comunicavano rassicurazione e fiducia) gli esperti di comunicazione hanno compreso l’importanza del linguaggio non verbale per raccogliere i voti degli elettori. Queste strategie erano già conosciute anche in precedenza, basti pensare ai tristemente famosi comizi di Hitler, il quale non lasciava mai nulla al caso: infatti, studiava a tavolino i suoi movimenti e i gesti oratori guardandosi di fronte ad uno specchio, provando e riprovando più volte i passaggi delle orazioni che erano maggiormente cariche emotivamente e che pertanto avevano la funzione d’impressionare il pubblico. Oggi possiamo dire che i gesti e i movimenti dei politici di tutto il mondo somigliano sempre di più a quelli di attori intenti a recitare una parte, con sfumature diverse a seconda della cultura di appartenenza: se i gesti dei politici di lingua anglosassone appaiono più misurati e convenzionali, mentre quelli dei paesi nordeuropei riescono più di altri a controllare l’emotività, i gesti dei politici francesi, spagnoli, italiani e dei paesi mediterranei in genere, tendono a lasciarsi andare a gesti più ampi e frequenti, che partono dal basso verso l’alto. Un tale gesticolare è indice di come si lascino trascinare maggiormente dalle emozioni durante le loro orazioni e di come puntino a coinvolgere gli elettori dal punto di vista emotivo piuttosto che di quello mentale.

martedì 10 gennaio 2012

Randy Pausch e l’arte di realizzare i propri sogni


Randy Pausch è stato un professore d’informatica che lavorava presso la Carnegie Mellon University della Pennsylvania. Ha tenuto la sua ultima lezione pubblica il 18 settembre 2007, nell’ambito di un ciclo di conferenze in cui ognuno dei relatori, nella condizione ipotetica di avere soltanto l’ultima possibilità per farlo, doveva immaginarsi quali insegnamenti di vita avrebbe provato a comunicare al pubblico se avesse saputo di stare per morire.
Per Pausch questa non era una mera possibilità, poiché gli era stato diagnosticato un tumore al pancreas e perciò aveva davanti a sé un’aspettativa di vita di soltanto pochi mesi. Nonostante fosse a conoscenza della sua morte, Pausch non si perde d’animo ma cerca di reagire con forza ed energia, impiegando il tempo che gli resta da vivere in modo da lasciare in eredità ai suoi figli e a tutte le persone che conosce  tutto ciò che ha imparato durante la sua esistenza.
Nel rievocare i suoi ricordi d’infanzia, si sofferma sui sogni che aveva da ragazzino, sottolineando come fosse relativamente più facile, rispetto ad oggi, sognare in un’epoca in cui gli uomini erano appena sbarcati sulla Luna e ogni conquista intellettuale sembrasse alla portata di tutti. Pur ricordando che le sue vecchie foto ritraggono un ragazzo che sorrideva sempre, Pausch dedica molta attenzione ai sogni che non è riuscito a realizzare, come ad esempio quello di diventare un lanciatore professionista di una squadra di baseball. Infatti, anche se non ha realizzato questo desiderio, Pausch afferma che ha imparato comunque tantissimo sulla vita e su se stesso nel cercare di diventare un giocatore di baseball, perché in fondo “la vera esperienza è ciò che ottieni quando non ottieni ciò che desideri”. Siccome sono le nostre aspettative a guidarci nelle scelte che facciamo ogni giorno, è proprio quando le cose vanno storte (alcuni invocherebbero la ben nota legge di Murphy, per cui se un evento non è ancora andato male, esso ben presto lo sarà!) che mettiamo in azione risorse e capacità che non sapevamo di avere, oltre ad imparare qualcosa di nuovo che prima ignoravamo e quindi non ci aspettavamo potesse accadere. Inoltre, grazie al suo vecchio allenatore di baseball, Pausch ricorda di avere imparato che quando una persona ci corregge, spronandoci a dare di più, ciò accade perché ha a cuore il nostro futuro e quindi vuole che riusciamo a trarre il massimo da ogni situazione che accade.
La seconda parte di questa conferenza è incentrata sul fatto che gli ostacoli che tutti noi incontriamo lungo il cammino, lungi dall’impedirci di raggiungere i nostri obiettivi, spesso possono servire per farci capire quanto davvero teniamo a perseguire una meta, quanto essa ci sta a cuore. Esistono persone che hanno avuto una vita in discesa oppure che più semplicemente cercano di evitare ogni ostacolo, ma in realtà esse tenderanno a vivere in maniera più superficiale perché non hanno mai davvero combattuto per ottenere quello che desiderano e soprattutto non si sono mai resi conto delle cose che più stanno loro a cuore, avendo già rinunciato in partenza ad affrontare eventuali difficoltà. In questa prospettiva, la fortuna diventa quel momento in cui “la preparazione incontra l’opportunità”.
Infine, nella terza parte Pausch affronta l’argomento del rapporto con gli altri: secondo lui, le persone non sono mai veramente malvagie, poiché in ognuna c’è sempre qualcosa di buono con cui cercare di rapportarsi, basta soltanto fornire loro il tempo a sufficienza per dimostrarlo. Tale concetto è simile a un altro espresso da Einstein, secondo il quale non esistono persone completamente malvagie, poiché “anche la peggiore persona di questo mondo è migliore di tutte le altre in almeno qualche cosa”. Rogers, un famoso psicologo americano che ha compiuto studi approfonditi sull’empatia, riteneva che ogni persona che abbiamo di fronte stia comunque cercando di fare del suo meglio in una fase spesso difficile della sua vita. Probabilmente questi concetti non sono veri in assoluto, però contengono nella loro formulazione un invito a comportarsi “come se“ così fosse: un tale atteggiamento mentale, infatti, rende ognuno di noi più tollerante verso le idee e le sensazioni degli altri, insegnandoci a entrare in relazione con le parti migliori degli altri. Infatti, sempre secondo Pausch, se impariamo a essere più tolleranti verso il prossimo e ad avere più fiducia negli altri e più in generale verso la vita, allora “può anche capitare che siano i sogni a venire da noi”.